Nel film “Hondo” del 1953, John Wayne insegna a nuotare a un bambino di sei anni:
Nel nostro recente viaggio in Giappone abbiamo potuto constatare che sul tema “cadute” la maggioranza delle persone che pratica da tanto tempo dà più o meno la stessa risposta. Che suona più o meno così:
“Ti prendono e ti fanno cadere. Se sopravvivi vuol dire che hai imparato. Sennò impari”.
Dalle nostre parti, se si parla con chi è sul tatami da qualche decennio, il feedback è simile. La “vecchia scuola”, insomma.
Ma è così?
Proviamo a guardare al mondo delle ukemi in una prospettiva più ampia.
Un bambino piccolo non si fa grossi problemi a rotolarsi per terra. Ha il baricentro basso, poca massa, un corpo elastico e una capacità di ripresa pressoché infinita. Tutto è un gioco, tutto è divertimento.
Salvo quei casi -purtroppo in crescita costante- di bambini che non sviluppano la motricità naturale che si acquisisce col gioco e con quel minimo di attività tipica dell’età infantile, non è necessario insegnare ai bambini a cadere. Lo fanno già di natura.
Semmai è necessario insegnare loro a cadere bene. In modo funzionale ad assorbire un impatto e a potersi rialzare in fretta, tutelando l’integrità della propria struttura.
Che cosa succede se ci si approccia alle cadute in età adulta, diciamo dalla tarda adolescenza in su?
Il corpo non è più quello di un bambino e l’elasticità fisica e mentale fanno una certa opposizione a una situazione che non si è più…allenata. Dopo tanti anni dalle ultime ruzzolate sul tappeto di casa, il sistema psicofisico fa esperienza della distanza tra il desiderio di compiere un gesto tecnico (l’ukemi) e il corpo che spesso va in blocco.
Le cadute diventano quindi un’ossessione. Per il principiante, perché rappresentano una frustrazione. Per il praticante avanzato perché, a un certo punto, si inizia a pensare che saper fare una ukemi spettacolare -magari una proiezione- sia sinonimo di maestria nell’arte che si coltiva.
Cerchiamo di vedere come guarire da questa ossessione.
Sicuramente la didattica delle ukemi richiede approfondimenti che non si limitano solo al gesto tecnico in sé. Nella nostra esperienza abbiamo visto che l’utilizzo delle fit-ball e di materassi da ginnastica artistica sono di grande aiuto. Abbracciare una fit-ball permette -a grandi e piccoli- di fare esperienza di un corpo che acquista una forma più circolare. Di un impatto col tatami che viene assorbito in modo non traumatico.
Il materassone da ginnastica, mette il praticante in una situazione di sicurezza percepita in cui gradualmente far comprendere che il corpo diventa capace del medesimo movimento, a prescindere dalla presenza o assenza di un materasso morbido.
Con l’aiuto di questi due strumenti abbiamo visto che, di solito, in poche lezioni un adulto mediamente legnoso e privo di rudimenti tecnici marziali, arriva a fare in autonomia e sicurezza le cadute frontali.
Sottolineiamo il concetto di autonomia, perché la comprensione della dinamica della caduta esige questa sia una scelta e non un’imposizione. Generare un automatismo nelle cadute non solo è discutibile dal punto di vista funzionale ma, questo sì, pericoloso.
L’autonomia si nutre di consapevolezza. La consapevolezza è un ingrediente che scarseggia nelle dispense dei principianti (e non solo). Che cosa succede se una persona decide di fare una caduta quando il suo corpo è sotto una leva bloccante? Di chi è la responsabilità della contusione/lussazione che ne seguirà?
Sembra un paradosso ma l’autonomia si nutre anche e soprattutto di relazione e di reciproca dipendenza. Educare il corpo a seguire un movimento co-creato all’interno di una pratica in coppia è essenziale per arrivare ad un evento definito dalla consapevolezza di entrambi. Uno che effettivamente toglie l’equilibrio all’altro che accetta la situazione e cade.
L’assenza di una reale relazione tra tori e uke e il chiudersi dentro le proprie proiezioni mentali porta inevitabilmente all’ossessione delle ukemi. Da un lato tori forzerà la tecnica, dall’altro uke cadrà quando non deve o non cadrà quando invece ci saranno i presupposti. O si proietterà quando non deve. O peggio: quando non sa ancora farlo, condizionato dalle aspettative di performance ipotizzate per il suo grado.
Da allievi e da insegnanti riceviamo e proponiamo un allenamento improntato al concetto di “michibiki” (道+引きます: tirare con sé/condurre qualcuno lungo una strada). Condurre uke attraverso una presa (sui polsi o su un jo) con una direzione chiara di squilibrio e lasciarlo libero di cadere secondo la sua sensibilità.
Si scopre così, incrementando velocità e complessità del movimento gradualmente e in modo sostenibile per ciascun praticante, che l’ukemi è sempre e comunque un atto di libera scelta di uke.
E’ uke che sferra l’attacco. E’ uke che sente la presenza di un reale squilibrio. E’ uke che predispone il corpo in ogni fase dell’azione per ricevere al meglio l’ingresso dell’energia nel suo sistema.
Alcuni stili amano dare di sé l’immagine di approcci coercitivi. Alcuni attraverso la loro devozione ad angoli e geometrie, altri per il loro spasmodico dinamismo. L’eccessiva attenzione su kihon da un lato e ki no nagare dall’altro distrugge l’essenza dell’Aikido, che è il superamento della non dualità, piuttosto rafforzando l’errore cognitivo che sia tori che fa qualcosa o uke che debba saper fare qualcos’altro. Una tragica rappresentazione di un kata della…libertà.
Concludendo, la didattica delle ukemi è un pilastro fondamentale dell’Aikido. Un pilastro che deve reggere l’edificio della pratica anche a confronto con le esigenze della società in cui viviamo, che non è certamente quella giapponese dei fondatori del Budo moderno.
Nel dare al praticante gli strumenti per allenare il proprio sistema alla ricezione di un’energia in ingresso, occorre contrastare gli automatismi, che sfociano nel percepire la pratica dell’Aikido come qualcosa in cui l’ukemi sia in qualche modo dovuta.
Cadere solo quando ci sono le condizioni è un esercizio di realtà e un ottimo antidoto contro l’ego ipertrofico dei tori aspiranti alfa e degli uke iperprestazionali. Ed è anche un buon modo di preservare il corpo e praticare una disciplina a lungo.
Disclaimer: Foto di Craig Gary da Pexels